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Prima e dentro Giochi di memoria

C’è una sorta di pudore nel riaprire, a parole, un lavoro che è fatto, finito, confezionato e anche diffuso. Applausi o biasimi, a parte. Forse perché c’è anche la paura di riprovare tutta la fatica dei momenti che hanno portato alla scena finale, che può essere la messa in onda, l’abbraccio con se stessi, l’invio dello scritto a cui tieni ma non lo dai a vedere, il sorrisetto o l’occhiataccia dell’altro. C’è poi la riflessione critica che verso un proprio lavoro risente di naturale coinvolgimento e quindi nasce sempre poco critica. C’è soprattutto la rete di relazioni che ogni lavoro attiva, forti eppure delicate come la tela di un ragno: sono queste che fanno reggere la tensione e il peso di ogni costruzione di storia, proprio come fanno i ragni con la loro casa.

Tuttavia… voglio mettere alla prova la rete e condividere cosa c’è prima e dentro l’audio documentario Giochi di memoria.

C’è un libro, prima di tutto, Sonetti erotici e meditativi di Giuseppe Giachino Belli, poeta romano del XIX secolo che inizia a scrivere in italiano e poi continua in dialetto, un romanesco difficile oggi da leggere e ancora più difficile da trascrivere (nell’audio doc io ho fatto un errore proprio leggendo male la trascrizione che dovrebbe facilitare la lettura e la comprensione del testo! E non ho voluto ripetere la battuta per non rovinare la conversazione spontanea con Marisa e piegare la realtà ai miei fini).
Quando Marisa un giorno urlava la sua costrizione e dal 7° piano la sentivo così vicina, ho deciso di salire al piano di sopra e fare qualcosa, cioè niente di risolutivo, forse solo la presenza. Avevo però bisogno di un aiuto e un libro di poesia mi pareva quello giusto anche se rischioso. Poi il libro di Belli, che per caso porta lo stesso cognome della mia amica, sembrava ancora più adatto. Ci abbiamo provato:-)

Ci abbiamo provato fino a un certo punto: era difficile per entrambe acchiappare le parole e ridare senso alla mia lettura e ai suoi ricordi, allora è intervenuta la musica, quella della tradizione popolare romana e quella rappresentata da una canzone in particolare, Lella, di Edoardo De Angelis. La canticchiavo io – perché da poco tempo riascoltata in radio nella versione di Lando Fiorini – e la canticchiava lei seguendo i miei mugugni: su internet intanto recuperavo vecchi articoli sull’inopportunità di diffusione di una canzone sul femminicidio per cui lo stesso autore provava imbarazzo. Ho riflettuto anche io sulla scelta che stavo facendo ma anche in questo caso la realtà ha guidato l’intenzione, Marisa ha fatto il resto.

Faceva caldo: l’aerosol l’aiutava contro gli affanni del respiro mentre io registravo quella macchina che alle 6.45 mi dava la sveglia da un po’ di tempo a questa parte. Sarebbe stato uno dei tappeti sonori insieme al mare verso cui fuggivo appena potevo. Be’, il mare è stato più di un tappeto, anzi proprio il leit motiv di questo lavoro: “La memoria è come il mare: può restituire brandelli di rottami a distanza di anni“. (Primo Levi). Facevo su e giù da un villaggio vicino Roma; portavo conchiglie, suoni, vento nelle orecchie. Stavo in acqua il più possibile e a riva a osservare le onde.

Pensavo spesso alla badante e alle difficoltà di relazione fra due persone che non si sono scelte ma si sono trovate dentro la stessa casa, una da malata una da ospite indesiderata. Un giorno ho pensato anche a me, a chi mi porterà in bagno quando non sarò più in grado, se resterò da sola su un letto per la degenza domestica. E’ stato un attimo, l’attimo dopo ero nella cucina di Marisa a trafficare coi dolci e con l’acqua rigorosamente di frigo e col ghiaccio, se possibile. E’ stato un attimo però pensare alla famiglia di oggi, agli appartamenti alveari, al lavoro di corsa, scusate se è tutto così scontato.

E poi, prima e dentro “Giochi di memoria”, c’è lei, la signora Marisa, a cui volevo un gran bene. E se uso il passato è solo per amore di verità, perché mica tutto finisce quando finisce il “play”. Ah sì, c’è pure la malattia, demenza primaria ad andamento degenerativo, ma qui non le do soddisfazione. Ho parlato con medici e psicologi, ho seguito il convegno “Comunicare le demenze” dell’associazione SOS Alzheimer non lo dico io, stare soli peggiora lo stato del paziente. Per questo la “terapia di validazione” mi sembra quella più efficace, in alcuni casi, perché si basa su un rapporto empatico con la persona malata e ne accetta la realtà così come viene vissuta.

E poi c’è la Radio Svizzera Italiana, e il programma di approfondimento Laser, della Rete Due, che si è fidata della proposta e mi ha lasciato fare. Non è poco.

Infine, ci sono gli appunti, le prove voci, lo script per tenere insieme le parti, la scelta delle poesie da leggere (Andrea Martella) e le musiche da comporre e usare (Sergio De Vito). Ci sono i miei numeri da circo per posizionare il registratore a favore di voce e mai il contrario visto che Marisa era spesso nel letto. Ci sono i silenzi.

Lascio qui la dedica che non ho fatto in voce, quella al mio amico Giuliano, che un giorno si perse per strada con la coppetta di panna e caffè. E’ la storia che avrei voluto scrivere insieme a lui se avessimo avuto ancora tempo.

Su transom.org un interessante articolo e contributo audio su come fare “interviste intime” (frettolosa traduzione, lo so): “Intimacy is a big part of our radio work” e come dice la producer Lu Olkowsky, “Perché altrimenti lo faresti?”

 

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