Le parole di casa per educarci alla concretezza
In questo tempo sospeso, delicato come quelle scatole con la scritta “fragile”, anzi in questo tempo fragile come siamo noi alle prese con noi stessi e i nostri limiti, c’è una parola che scalpita per farsi gesto e movimento, invece deve trattenersi per il proprio bene e per quello degli altri. Per la salvezza di tutti. Questa parola è corpo.
Scopriamo in questi giorni quanti siano gli appassionati di “corsette” della domenica e in tutta la settimana che non riescono a rinunciare a un’abitudine sana in sé e pericolosa per la specie umana soprattutto se praticata insieme, fiato in faccia e vento sul collo. Ci accorgiamo oggi di avere due gambe da sgranchire, due braccia per abbracciare, uno sguardo capace di andare oltre la finestra di fronte, una propriocezione che vive di equilibrio nello spazio e nella relazione con altri corpi, un sistema immunitario da proteggere senza metterlo alla prova.
Ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di sudore.
Del corpo usiamo la parola che lo nomina ma che ora non gli può dare azione, stiamo imparando a sentirci da fermi, a pulsare dentro: c’è il rischio di scoppiare oppure quello di ampliare le possibilità di conoscenza e condivisione anche in uno stato diverso e limitato rispetto alle abitudini più diffuse.
Uscire sul balcone è allora la conquista, lo sfogo, l’ultima estensione possibile del palazzo in cui viviamo e del nostro corpo fuori i muri dell’appartamento. Ha valore a prescindere dalla canzone del giorno e della bandiera appesa, ma nasconde un pericolo, che non è quello di sporgersi troppo dal settimo piano bensì quello di rimanere spettatori di una realtà in cui non possiamo più immergerci, almeno per ora. Non possiamo assistere e piangere e pregare vicino a chi muore. Ci manca il corpo a corpo.
Scalpita il corpo dello spettatore, fra il rischio di farsi male e il rischio di morire dentro: ha bisogno di altri corpi che si incontrano, per ora li vede da lontano, li vorrebbe vicino ma li teme come non mai.
C’è un romanzo di Daniel Pennac che in questi giorni mi torna in mente, è Diario di un corpo, del 2012, in cui l’io narrante racconta, dall’età di dodici anni e fino agli ultimi giorni, i cambiamenti nella sua vita che corrispondono all’evoluzione del suo corpo. E’ un romanzo delicato, Diario di un corpo, come la materia di cui siamo fatti, è una storia di fisicità e dunque un fatto spirituale.
Martedì 8 dicembre 1998 l’autore del Diario scrive: “Odio gli amici in spirito. Mi piacciono solo gli amici in carne e ossa”. Non dico qui la circostanza che tira fuori queste parole, ma già solo questa pagina del diario merita la lettura di tutta la storia.
Se oggi dobbiamo fare a meno della carne e delle ossa, sono allora proprio le parole a venirci in soccorso: non tutte, però, solo quelle delle cose che possiamo toccare senza guanti di protezione, senza paura, riconoscendole finalmente nel loro rinnovato utilizzo. Sono le parole della cucina, dallo scolapiatti all’impanare, le parole degli imprevisti domestici, una brucola è per sempre, una vite ahimè spanata. E’ il vocabolario della quotidianità, la base fisica e corporea della nostra vita, direbbe Tullio De Mauro.
Ricominciamo allora ad avvicinarci e a usare gli oggetti della vita casalinga, anzi facciamo il gioco di nominarli: scopriremo che siamo a corto di parole, che non riusciamo più a trovare “quella giusta”, il nome proprio dell’oggetto che indichiamo col dito o che teniamo in mano. Proprio non ce lo ricordiamo, che peccato. Eppure era una parola semplice, da quanto tempo oggetto e parola sono rimasti nel cassetto?
E’ un buon esercizio anche per i nostri posti e le nostre riunioni di lavoro, che oggi sono diventati, in modo coatto e di fretta, house working: la precisione della parola che possiamo riscoprire maneggiando gli oggetti casalinghi in questo tempo sospeso ci permetterà di irrobustire i nostri discorsi, esporre contenuti ancorati all’esperienza, evitare come la peste parole astratte e giri di senso, formule vuote. Ci permetterà, se cogliamo l’occasione, di farci capire dagli altri senza ambiguità e di far ricordare le nostre parole, mica poco, e di provare fastidio fisico verso ogni parola, espressione, frase che non sia precisa, chiara, adeguata al contesto.
In questo tempo proviamo a darci nuova educazione alla parola, sempre per citare De Mauro, maestro.
Le parole concrete sono quelle che nascono dal sudore di chi ha realizzato una cosa e da quello di chi la sta usando senza averlo mai fatto prima, forse. Le parole concrete sono le mani di sempre lavate con cura, la mela più volte sbucciata in un giorno, il pane raffermo. Non è poesia.
Saranno loro, le parole concrete, ad aiutare il nostro corpo a sentirsi vivo nonostante l’isolamento fisico e il fermo imposto, a farci usare verbi d’azione nonostante tutto – passami il cacciavite, tira su lo scolapiatti, vieni, leggi, ascolta… una casa indaffarata:-) -, a traghettarlo verso movimenti interiori e a permetterci di raccontare ricominciando dalle cose piccole piccole della vita di ogni giorno, imperfette e abitate dall’infinito.
Prima puntata, Il potere delle parole
Seconda puntata, Come parlare e scrivere di periferie?
Terza puntata, La parola modestia in Alice, il sindaco e… un ciliegio
Quarta puntata, Ciliegia, polvere, seggiola. La grande fabbrica delle parole
Quinta puntata, La scelta di Anna, bambina irriverente